Francesca Pisoni e la realtà in uno scatto.

Intervista a Francesca Pisoni, fotografa.

-Testi di Sara Butera-

Mi chiamo Francesca e vivo con due gatti a Vaprio d’Adda, paesino in cui sono nata e cresciuta.

La splendida zona a due passi da Milano, è attraversata dal naviglio della Martesana, e permette di perdersi nel verde, nella centrale Idroelettrica e nella bellezza di Villa Melzi, luogo in cui Leonardo Da Vinci è stato ospite per studiare le acque dell’Adda.

Fin da piccola, vivere circondata da tanti stimoli ha fatto nascere in me la voglia di fotografare la verità che mi circondava.

I primi scatti, diapositive con la reflex di mio padre, immortalavano momenti con le amiche, o gite nel territorio.

La svolta è avvenuta dopo il liceo, quando mi sono iscritta ad una scuola privata di fotografia a Milano; come speravo, ho iniziato fin da subito a seguire dei corsi di reportage.

A quei tempi si scattava in analogico, quindi ci insegnavano ad utilizzare al meglio l’esposizione della luce, a conoscere la macchina fotografica. L’approccio allo strumento e ai mezzi a disposizione era molto diverso da quello odierno. L’uso di Photoshop non era così diffuso: lo scatto doveva essere già pronto fin dalla base.

Faccio parte di quelle generazioni nate a cavallo tra due realtà. All’inizio, abituata alla pellicola, il passaggio dall’analogico al digitale non è stato così semplice. In parte, perché la risoluzione del digitale non era perfetta. A quei tempi, in qualche modo mi sono ritrovata a muovermi in un mondo che non era poi così pronto come invece è ora.

Man mano che la tecnologia si è evoluta e la qualità delle immagini è cresciuta, mi sono sentita sempre più a mio agio a muovermi con questi nuovi strumenti.

Non è tanto il mezzo a fare la differenza, ma “l’occhio” della persona che c’è dietro.

Tante volte, ormai, scatto dal mio smartphone e credo che nel futuro si arriverà ad utilizzare solo i cellulari.

La modernità è un’occasione. Penso che ogni cosa sia da sfruttare nel suo lato positivo. Trovo bellissimo che ognuno possa immortalare piccoli istanti della propria vita, così come penso sia un valore aggiunto il fatto che l’occhio umano si stia adeguando alla bellezza e alla qualità.

Per quanto mi riguarda, la fotografia è un modo per esprimermi. Sono una persona timida, ma dietro l’obiettivo mi trasformo; mi avvicino alle persone e riesco a capire chi sono, cerco di raccontare le loro storie attraverso quello che vedo e provo.

Questo mi ha sempre affascinata: riuscire a raccontare delle storie attraverso degli sguardi, dei momenti, delle situazioni.

Per me la fotografia è tutto, è la mia fermezza.

Prediligo i reportage. Da ragazza, svolgevo lavori come commessa o barista per riuscire a pagarmi viaggi, i traduttori e le pellicole per realizzare i miei servizi.

Mentre le mie coetanee andavano in vacanza a Ibiza, io partivo per mete sconosciute, verso luoghi talvolta ostili, per raccontare storie spesso difficili da metabolizzare.

Il fotogiornalismo mi ha sempre affascinata. Giovanissima, ho esplorato mondi in cui ho trovato una realtà molto forte.

Ho immortalato ragazzini che hanno subito le radiazioni di Chernobyl, sono stata negli orfanotrofi, sono andata in Kosovo per un’associazione non governativa, ho svolto servizi nei campi Rom, in Vietnam, Cina e Giappone.

Quando vedi un bimbo denutrito e con i vestiti stracciati, può risultare semplice scattare un’immagine d’effetto, ma bisogna essere in grado di trasmetterne la realtà col massimo rispetto.

Sara Butera, Libralchimia.

Le fotografie di questo articolo sono di Francesca Pisoni.

Francesca Pisoni, fotografa

Francesca Pisoni è su instagram: francesca.pisoni e su Facebook: Francesca Pisoni Photographer

Dread Maker Como: intervista a Barbara Onofrio, fondatrice di Dread Maker Como.

-Testi di Sara Butera-

Mi chiamo Barbara Onofrio e sono la fondatrice di Dread Maker Como.

Ho sempre avuto un’attrazione incredibile per i dread. Lo stile alternativo di questo mondo mi affascina da sempre, ancor prima di conoscerne i significati più profondi e, soprattutto, ancor prima che diventasse una moda.

Anni fa, ho intrapreso gli studi come parrucchiera; quando ho trovato impiego, ho avuto la fortuna di lavorare con una titolare dalla mentalità aperta, che non solo mi ha permesso, cosa non scontata, di tenere i dread, ma di portare avanti e di sviluppare questa mia passione.

Quando, col passare degli anni, mi sono resa conto che la richiesta di queste acconciature aumentava, ho iniziato a pormi una domanda: «Cosa voglio fare della mia carriera?»

Il mio stile di vita è cambiato notevolmente durante il lockdown dello scorso anno.

Dal punto di vista lavorativo, ho sempre avuto un’impostazione molto classica legata ad orari, scadenze; tutto contribuiva ad inquadrare le mie giornate in un rigido schema.

Il blocco totale, per molti drammatico, per me è stata una rivelazione.

Per la prima volta dopo anni mi sono dedicata a me stessa, al mio corpo, alla mia mente. Ho realizzato che la vita stava diventando una corsa infinita verso qualcosa di inafferrabile.

Lo yoga e la meditazione mi hanno aiutata a comprendere che, lentamente ma inesorabilmente, il mio corpo stava cedendo: prima o poi si sarebbe ammalato.

Comprendendo di dover puntare verso ciò che veramente mi piaceva, ho preso una decisione non facile, soprattutto perché in quel preciso momento, sia storico che personale, i timori erano molti.

Appoggiata dalle persone a me care mi sono convinta a prendere importanti decisioni che avrebbero cambiato il corso della mia vita. Ho compiuto il grande passo; ho lasciato il lavoro rinunciando alle certezze economiche per realizzare il mio sogno: è nato così Dread Maker Como.

Molti di voi si staranno chiedendo cosa siano i dread.

In primis, le persone domandano: «Che differenza c’è tra i “rasta” e i “dread”?»

I Rasta sono le persone che portano i Dreadlocks, i dread sono i capelli annodati.

Purtroppo, ancora oggi, esistono leggende metropolitane che associano questo stile ad un’errata idea di scarsa igiene personale. Nulla di più falso.

Un tempo, i dread si formavano semplicemente senza pettinare i capelli e annodandoli naturalmente. I problemi, più che altro, si presentavano alla cute che non poteva respirare.

Questi metodi ormai stanno scomparendo; proprio grazie alle figure professionali che seguono e curano il capello in ogni fase, partendo da una seria valutazione del cuoio capelluto, non si rischia più di incorrere nelle passate problematiche.

Avendo percorso seriamente una strada da parrucchiera classica, posso permettermi di offrire consigli più mirati, valutando attentamente i fattori che aiutano il cliente nella manutenzione ottimale.

Negli anni, le lavorazioni di queste acconciature si sono evolute. Personalmente, prediligo il metodo “all’uncinetto”.

La fase di cotonatura precede l’applicazione di ciocche, artificiali o naturali, che sono divise secondo uno schema ben preciso. I dread potranno essere lavati ed asciugati, prestando maggiore attenzione a quest’ultima fase.

Creo personalmente le decorazioni da applicare, utilizzando materiali come legno, stoffa, rame e tutto ciò che mi suggerisce la fantasia.

Anche se molti clienti preferiscono uno stile più naturale, trovo che gli ornamenti non siano utili solo per abbellire le acconciature, ma anche un modo per farle apparire più curate.

C’è chi mantiene verso i dread un’immagine antiquata, ormai largamente superata.

In Italia, purtroppo, esistono ancora pregiudizi, al punto che, per alcune persone, diventa persino difficile trovare un lavoro.

Per fortuna, da quando mi sono dedicata a quest’attività a tempo pieno, ho scoperto che, piano piano, la mentalità si sta aprendo.

Penso che la libertà d’espressione debba essere totale.

Al di là della moda, per alcune persone i dread comprendono un cammino spirituale.

Come per molte donne cambiare acconciatura spesso denota un mutamento interiore, così accade con gli amanti dei dread, che esprimono voglia di innovazione, di iniziare un nuovo percorso che non riguarda solo l’estetica.

Man mano che ci evolviamo, i capelli seguono il nostro percorso.

Crescendo, ci raccontano nella nostra interezza… con i nostri colori, forme e soprattutto per la voglia di distinguerci, cantando con una voce intonata ma semplicemente, per ora, fuori dal coro.

Sara Butera, Libralchimia.

Articolo informativo senza scopi commerciali.

Dread Maker Como

Dread Maker Como, di Barbara Onofrio, è su Instagram e Facebook.

Per info: mob +39 340 6939902

ba.dreadmaker@gmail.com

Valentina Beltrami e il castello di Vogogna.

-Testi di Sara Butera-

Al di là del lavoro e della passione verso l’organizzazione e la gestione degli eventi, tutto è iniziato quand’ero molto giovane.

C’è stato un momento, alle scuole superiori, in cui ero in panico, non sapevo cosa fare della mia vita, soprattutto perché non ero certa di voler portare avanti l’attività dei miei genitori, che si occupano di macchinari da caffè.

Circondata dai familiari che lavoravano per l’azienda, sentivo una grande responsabilità.

Ricordo come se fosse ieri il sollievo che provai quando mio padre disse: “Tu fai quello che vuoi, punto e basta, non guardare null’altro.” Quella frase ha cambiato la mia vita.

All’improvviso, quel grande punto di domanda si è dissolto ed ho scelto di studiare beni culturali, a Milano.

Sono nata e cresciuta a Vogogna, un paesino di 1800 abitanti in provincia di Verbania.

La Val d’Ossola con i suoi monti, laghi e valli, è una stupenda realtà, ma che si impara ad apprezzare con la maturità.

Quand’ero una ragazzina di diciotto anni, la voglia di allontanarmi per scoprire il mondo era troppo grande.

A quella giovane età non vedi le difficoltà, ma solo nuove occasioni. È stupendo essere liberi di viaggiare, sperimentare; in qualche modo, senti di avere il futuro in mano e dopo l’università è stato tutto un crescere, un appassionarsi sempre maggiore alle materie che studiavo.

Mi nutrivo di sapere.

Il pensiero “faccio altro, faccio di più”, mi ha portata a spostarmi da Vogogna a Milano, da Milano a Parigi dove ho frequentato gli studi alla Sorbona. Questa grande città europea, offre un’immensa gamma di possibilità.

In realtà, sono partita dall’Italia alla ricerca di un percorso che, purtroppo, nel mio Paese non riuscivo a trovare: gestione museale. O meglio, c’erano dei master a pagamento con delle cifre per me inaccessibili.

Nella Ville Lumière ho potuto frequentare corsi di formazione nelle molte gallerie d’arte parigine, oppure nelle istituzioni pubbliche: tutto era un’immensa opportunità.

Grazie alle retribuzioni degli stage mi sono potuta permettere di vivere Parigi e per quattro anni non mi sono spostata da quella grande città.

Ad un certo punto, sempre spinta dalla voglia di scoprire e di evolvermi costantemente, mi sono trasferita in Canada a Montréal. Sono partita a settembre con sei mesi di permesso lavorativo e sei mesi di permesso turistico, con l’idea di restare un anno.

In realtà, nel periodo di transizione tra Parigi e Montréal, un’estate sono tornata a casa per ritrovare i miei cari.

Ad una sagra di paese ho conosciuto il mio attuale compagno e… ci siamo innamorati. Lui è stato fantastico: senza alcuna pressione mi ha lasciata libera di continuare la mia esperienza in Canada.

Quando ho deciso di tornare per qualche tempo a Vogogna in modo da capire cos’avrei voluto realmente dal mio futuro, ma presto sono arrivate le risposte che cercavo.

Nel mio paese c’era uno splendido castello: rapita da tanta bellezza, ho capito la giusta strada da percorrere.

Dopo aver scritto un progetto di recupero gestionale della struttura, ho contattato un’Associazione Culturale locale proponendo le mie idee… da quel momento, nel 2017, è partita la nostra avventura.

Bisogna credere nei propri progetti.

Se ci ripenso, in quel momento avevo tutte le carte davanti a me. Il castello era già lì, l’amministrazione comunale già da tempo stava cercando la persona giusta per gestirlo. Semplicemente, ho deciso di proporre le mie idee al momento giusto ed alle giuste persone: grazie all’Associazione Culturale Ossola Inferiore ho potuto realizzare i miei progetti.

Del mio lavoro amo l’imprevedibilità. Quando mi sveglio la mattina, a parte le scadenze e gli impegni programmati, non so mai con assoluta certezza cosa mi attenderà. Questo è ciò che amo di più: ogni giorno vissuto qui, è diverso.

Al di là della mansione in biglietteria o delle visite guidate e della didattica con i bambini, il lavoro al castello, aperto al pubblico nel periodo estivo, offre le più svariate attività, dai concerti alle feste d’animazione. D’inverno ci dedichiamo ai più giovani, per far scoprire senza fretta le meraviglie di questo monumento storico.

Ho la fortuna di essere affiancata da collaboratori formidabili; grazie a loro sono libera di dedicarmi alle attività che più stimolano il mio estro creativo.

Nei giorni in cui sento la stanchezza, trovo conforto nel castello.

Quando ho bisogno di rigenerare le energie salgo in cima alla torre, che poi è il punto in cui termina il percorso guidato al pubblico, ma ogni volta, per me è sempre come se fosse la prima.

Mi siedo sull’altalena agganciata saldamente alle travi del soffitto e mi lascio cullare, abbandonando pian piano i pensieri.

Il cielo muta di continuo, così come i colori delle valli.

In quei momenti mi sento appagata, in pace con il mondo, forse perché ho viaggiato tanto e mai, nell’emozionante ricerca di me stessa, mi sono sentita realizzata come qui ed ora, nel castello che sorge in quel luogo a me tanto familiare.

Sara Butera, Libralchimia.

Valentina Beltrami e il castello di Vogogna

Fotografie di Valentina Beltrami, Castello di Vogogna (VB)

Andrea Faletra e “La teoria del Ciao”.

-Testi di Sara Butera-

Ho avuto la fortuna di avere dei grandi genitori che mi hanno avvicinato fin dalla più tenera età alla tecnologia.

Da bambino, adoravo veder decollare gli aeroplani, così mi portavano all’aeroporto di Milano Malpensa. Incuriosito e affascinato, sognavo di poterne condurre uno.

Quando sono cresciuto ho deciso di prendere il brevetto di volo, per poi conseguire la licenza di pilota privato.

Presto ho compreso che l’aereo era semplicemente una macchina che usavo per volare. Certo, la conoscevo perfettamente dal punto di vista tecnico, ma soprattutto mi permetteva di avvicinarmi all’interesse verso la scienza e a tutto quello che comprende il mondo dell’aerospazio.

La domanda: “Sopra di me che c’è?” È stata una logica conseguenza. Quali possono essere le possibili condizioni per cui possa esserci vita oltre la terra? La curiosità mi ha spinto in ogni passo.

Da sempre, quando prendo in mano qualcosa, mi domando come sia fatta; sorrido pensando a quando ero piccolo e smontavo o rompevo gli oggetti per capirne il meccanismo. Ora, invece, creo e riparo.

In realtà non è importante il lavoro che svolgo, ma cosa mi spinge in una determinata direzione.

Ho la certezza che tutto si possa trasformare: io ne sono esempio.

Anni fa, sognai di vivere assieme ai miei amici una fantastica avventura, tanto strabiliante da sentire il desiderio di trascriverla al mio risveglio.

Di quel quel sogno, negli anni è rimasto poco, null’altro che quaranta righe. Avrei avuto bisogno di tempo per sviluppare un racconto, per poter concretamente realizzare un libro.

Quegli appunti sono rimasti dimenticati in una cartella del computer per qualche anno finché, ad un certo punto della vita, un evento straordinario mi ha positivamente stravolto: è nato mio figlio Isaac. Curandomi di lui, la notte, ho potuto trovare prima minuti, poi ore preziose per riprendere in mano quel sogno.

Per scrivere serve il momento giusto, così come la giusta ispirazione. In quel preciso momento della mia esistenza, ho sentito il bisogno di raccontarmi.

Credo che ogni scrittore abbia dentro di sé un grande punto interrogativo e voglia trovare risposte nel suo stesso operato.

Nel mio caso, ho voluto fare una carezza alla vita.

Sulla scia di quel sogno passato ho dedicato tutto il mio tempo libero a produrre un volume piacevole e dalla storia interessante, quindi sono nate le prime dieci, cinquanta, cento pagine e così via fino alla stesura completa della bozza.

Così è nato il romanzo d’avventura “La teoria del ciao”.

Questo titolo, che potrebbe apparentemente sembrare banale, in realtà riporta a una teoria reale maturata da scienziati di tutto il mondo, che considerano la vita come il composto di quattro elementi chimici fondamentali: carbonio, idrogeno, azoto e ossigeno. Queste sostanze, nelle condizioni giuste, all’interno dell’acqua possono creare la vita. La parola “ciao”, altro non è che l’abbreviazione di questi elementi.

Il racconto, che si sviluppa a cavallo tra il 1950 ed il 2019, narra le avventure di tre amici per la pelle. Uno di loro, particolarmente creativo, è un piccolo genio. In seguito ad un esperimento, il laboratorio in cui ha lavorato viene distrutto e  lui scomparirà, così come accadrà ad un altro dei ragazzi.

Questa sparizione verrà dimenticata, per essere poi narrata molti anni dopo da un anziano, in realtà l’unico membro rimasto del trio, che deciderà di spiegare i fatti realmente accaduti.

Vi faccio una piccola confessione: il signore raffigurato sulla copertina sono io. Ho deciso di invecchiare la mia figura, anche se in realtà ho solo quarantaquattro anni, perché io stesso racconto questa storia fantastica immedesimandomi nella figura del narratore.

Troppo spesso scordiamo quanto sia preziosa l’esperienza degli anziani che hanno un grande vissuto da raccontare, ma in realtà l’esistenza umana non è che un continuo provare e tentare, fino ad arrivare a quella convinzione di perfezione che permette alla vita di esistere e di replicarsi.

Sara Butera, Libralchimia.

Articolo a scopo informativo e non promozionale.

 

Andrea Faletra e "La teoria del Ciao"

Il libro di Andrea Faletra “La teoria del Ciao” è in vendita su Amazon e in tutte le migliori librerie.

Daniela Colombo e le sfumature della comunicazione.

-Testi di Sara Butera-

Intervista a Daniela Colombo, giornalista.

Per realizzare i propri intenti ci vuole talento, ma non solo. È necessario avere quel pizzico di fortuna che ti fa essere nel posto giusto al momento giusto e soprattutto incontrare una persona che crede in te.

Non è semplice. Forse ogni cosa dipende dalla voglia di metterci in gioco, di sacrificarci nonostante tutto, perché la passione per ciò che facciamo è più forte di qualunque ostacolo.

Ricordo perfettamente l’istante in cui sono rimasta folgorata da un’immagine.

Ero solo una ragazzina davanti ad uno schermo; non ricordo se stavo guardando le Olimpiadi o i Mondiali… in realtà, questo non conta. Ciò che importa è che mi trovavo incantata davanti agli istanti in cui un atleta parlava per la prima volta dopo la vittoria. Era ancora provato, sudato, con l’asciugamano appoggiato sulle spalle.

La reporter stava trasmettendo al mondo qualcosa di unico e irripetibile.

In quel preciso istante, un solo pensiero mi ha attraversato la mente: un giorno sarei diventata una giornalista sportiva.

Ho sempre praticato sport. Pattinaggio sul ghiaccio, calcio, atletica. Amo queste discipline in ogni sfaccettatura, tanto da sentire il bisogno di raccontare, di trasmettere questa mia passione.

In realtà tutto è nato per gioco. Mi ero appena laureata in Comunicazione e mi divertivo ad intervistare una squadra di calcio locale. Su una pagina social, ho augurato il buon compleanno ad una persona; un suo amico, di professione giornalista, incuriosito dal fatto che la mia immagine di profilo mi ritraesse con un microfono in mano, mi ha contattata e dopo qualche tempo mi ha inserita in un progetto rivolto ai giovani.

A quei tempi andavo sui campi tutte le domeniche, giravo e montavo dei servizi che ho iniziato a trasmettere sul canale online “La Domenica Sportiva Lariana” sul sito della Provincia di Como.

Credo che mi abbia premiata l’impegno; le persone con cui sono entrata in contatto hanno iniziato a fidarsi di me, ad apprezzare ciò che portavo avanti con slancio. In questo modo è iniziata la collaborazione, che prosegue tuttora, con questa grande testata locale.

Inizialmente non sono stata attratta dall’idea di un guadagno. Amavo talmente ciò che facevo, che la spinta interiore derivava dalla passione e dalla determinazione di costruirmi un futuro giornalistico.

È bello avere un intento in cui credere. Questa è stata, se vogliamo, una grande fortuna, soprattutto per la mia giovane età.

Che strana la vita. Magari il destino mi avrebbe comunque portata a collaborare con “La Provincia di Como”, ma è come se mi fossi trovata involontariamente su una strada già segnata.

Il fatto di espormi e di portare avanti un progetto con determinazione mi ha resa nota al direttore, che si è fidato di me.

Ho iniziato in questo modo, con la fortuna di lavorare con un capo redattore che ha creduto e valorizzato le mie potenzialità.

Ora mi occupo delle sezioni “Lago e Valli” e “cintura”, più raramente seguo lo sport. Crescendo, ho capito di amare la comunicazione in ogni sua sfumatura.

Forse perché sono nata a Laglio, sul Lario, ma posso dire con certezza che amo raccontare i fatti che accadono nel mio territorio e intervistare le persone che, spesso, trovano aiuto proprio grazie agli articoli.

Mi fido dei disegni del destino. Nel frattempo voglio imparare tutto di questo mestiere per essere pronta, in futuro, a raccogliere i frutti dell’esperienza.

Daniela Colombo e le sfumature della comunicazione

Daniela Colombo e le sfumature della comunicazione

Christian Drake Manzini e la visione della poesia.
-Testi di Sara Butera-
Intervista a Christian Drake Manzini
A tredici anni, la scrittura era un modo per parlare dei miei problemi adolescenziali. Crescendo, questa è diventata non solo una passione, ma un modo di mettermi a nudo.
Ho trovato una dimensione nelle poesie poiché amo i pensieri brevi, piccole riflessioni sul mondo che mi circonda.
Amo le collaborazioni; realizzare progetti insieme ad altri artisti è un modo potente per rendere più immediati i miei testi.
Musicisti, fotografi, modelle… ogni singola espressione è un valido mezzo per arrivare alle persone. È così che sono arrivato a sviluppare progetti eterogenei, per poi pubblicare due libri di poesie accompagnate da immagini fotografiche.
Ho una visione ampia della poesia, che non è mai fine a sé stessa. Mischiandola con altre forme d’arte, la rendo più comprensibile. È come un supporto vicendevole che arriva dritto al cuore del significato che desidero trasmettere.
So che ad alcuni può sembrare un controsenso, ma un’altra mia grande passione è la musica heavy metal.
Sono membro di alcune band e i testi che compongo, che siano in inglese o in italiano, hanno sempre forme e tematiche molto simili a quelle che utilizzo per la poesia.
Nonostante io suoni musica di un certo tipo e canti in un determinato modo, le tematiche di cui parlo non sono null’altro che gli stessi pensieri, semplicemente arrivano in modo differente.
Non amo uniformarmi alla massa, quindi nelle canzoni utilizzo parole che non sempre si trovano nel mio genere musicale.
Scrivere è la forma che trovo più adeguata per esprimere me stesso. Con la poesia vado dietro alle cose, esploro la vita, mi interrogo su cosa si nasconda dietro un evento naturale, ai comportamenti delle persone, mi metto nei panni di qualsiasi argomento.
Attraverso i miei versi cerco spunti di riflessione per me stesso e per chi legge, alla ricerca di uno stimolo per comprendere ciò che ci circonda.
Da qualche mese, su Spreaker e Spotify ho aperto un podcast che si chiama “Quarto di luna”.
Che siano più o meno conosciuti, parlo di autori che amo, dando inizialmente qualche cenno biografico e leggendo i loro scritti con un sottofondo musicale composto da Filippo, tastierista, che condivide con me quest’esperienza fatta di poesia e riflessioni, di parole e suoni.
Sara Butera, Libralchimia.
https://youtu.be/hvKA-B9P5IA
Christian Drake Manzini e la visione della poesia

Christian Drake Manzini e la visione della poesia

Maria Giovanna Bernabei, artista

Testi Di Sara Butera-

Mi chiamo Maria Giovanna e, da quando ho memoria, sono un’artista.

Quand’ero piccola non c’era la possibilità di avere tanta carta, perlomeno non come ora che se ne fa anche spreco; spesso, la mamma mi regalava quella che avvolgeva il pane, ed io disegnavo con una matita recuperata.

Riprendevo ciò che vedevo dalla finestra, oppure gli animali di casa.

Avrei voluto frequentare il liceo artistico… eppure non ne ho avuto la possibilità.

Certo, ho studiato tanto da autodidatta; per un certo periodo ho anche spedito i miei dipinti a Brera: gli insegnanti li correggevano a distanza e me li rimandavano, ma presto ho dovuto rinunciare a causa dei costi troppo elevati.

I problemi economici non mi hanno mai fermata, l’amore verso l’arte era troppo forte, travolgente.

Da bimba utilizzavo il carboncino, poi sono passata ai colori ad olio: il mio grande amore.

Purtroppo ho dovuto abbandonare questa tecnica a causa di una forte allergia, ma non mi sono persa d’animo e sono passata agli acrilici, che non ho mai abbandonato.

In realtà, non mi interessa il materiale che utilizzo: l’arte è arte, quindi dipingo su tutto ciò che capita, dal legno alla carta e persino sui sassi, perché voglio provare ogni tipo di esperienza.

La mia prima infanzia, a Mandela, è stata felice.

Ho amato questo splendido borgo romano al punto che ancora adesso, prima di andare a dormire chiudo gli occhi e con la mente ripercorro ogni vicolo.

In quel luogo ero felice, ma sono rimasta orfana di mio padre a soli nove anni, quindi io e mia sorella siamo state messe in collegio.

Avrei dovuto continuare a studiare, ma le mie zie si son date un gran da fare per riuscire a trovarmi un impiego.

Sono stata assunta in un grande magazzino di Roma; ho iniziato come commessa e presto i miei superiori hanno notato il mio estro creativo.

È iniziata così la carriera da vetrinista, che mi ha accompagnata per tanti anni.

Ho amato tantissimo questo lavoro, che mi ha portata a viaggiare tra Roma e Milano.

Anche ora ricordo lo sguardo stupito dei bimbi davanti alle vetrine; ero felice quando la gente si fermava a guardarle, per questo motivo non oscuravo i vetri mentre costruivo quei piccoli angoli da sogno.

Nelle opere ho messo tutta me stessa, in ognuna è rimasta una piccola parte di me.

Mio marito mi ha aiutata tanto, soprattutto a trasportare il materiale più pesante e voluminoso.

In autunno recuperavo nei boschi enormi rami con ricci e castagne.

Spesso mi recavo dai contadini per chiedere in prestito del materiale e loro si fidavano.

Promettevo di riportare tutto, assumendomene la piena responsabilità.

Ho creato personaggi in dimensioni reali costruendo “anime” di legno e reti per recinzioni, rifinendoli poi con la carta.

Quanti ricordi…

Come tutte, la mia vita è stata piena di discese e risalite.

Sono felice di ciò che ho realizzato. Sono stata una spugna che si nutre di quella creatività che la natura mi ha dotato e ne vado fiera.

A volte mi chiedo: sarebbe stato meglio concentrarmi su una sola tecnica? In realtà, la sete di conoscenza mi ha portata a disperdere molte energie, eppure mi rispondo che ho fatto bene a seguire l’istinto.

Del resto, come cantava una famosa opera: “Vissi d’arte, vissi d’amore, non feci mai male ad anima viva”.

Articolo di Sara Butera

 

🦢Il mio romanzo “Come un cigno che corre sull’acqua” è ordinabile fisicamente in tutte le migliori librerie d’Italia ed è disponibile online su Amazon tramite questo link: 👉 https://amzn.eu/d/d9kgQph

Maria Giovanna Bernabei

Maria Giovanna Bernabei

Konrad Lorenz: Oche selvatiche – Testi di Otis Ribera

Il padre dell’Etologia scientifica ebbe il grande merito, con i suoi studi e le sue scoperte, di modificare in parte la mentalità e gli atteggiamenti che l’uomo aveva sempre avuto nei confronti degli animali.

Famose, in particolare, le sue originali osservazioni sul comportamento delle oche selvatiche.

Non era difficile vederlo gattonare nel giardino di casa seguito da una decina di pulcini pigolanti e in fila indiana; oppure fare il bagno nel lago in loro compagnia.

Konrad Lorenz aveva scoperto che nei primi istanti di vita, ed entro le 48 ore successive, l’istinto viene fissato nel comportamento degli animali (imprinting).

Lui era stato la prima entità vivente ad aver interagito con loro fin dai primi momenti della loro vita.

Avviene qualche cosa di simile a tutti gli esseri viventi.

Nell’uomo, la differenza, è che le conoscenze vengono fissate nei primi anni di vita e poi, nel tempo, le esperienze sociali e culturali ne modificano gli istinti e i comportamenti.

Secondo il pensiero di Konrad Lorenz, tutti i grandi animali hanno la capacità di ricevere e reagire agli stimoli.

I mammiferi superiori come il cane o la scimmia, hanno sentimenti simili a quelli degli uomini.

Disse frasi molto dure verso coloro che contestavano o dimostravano scetticismo verso il concetto di senzienza animale, ovvero la capacità di ricevere e reagire agli stimoli in maniera cosciente e interiore.

Questa intuizione fu molto avversata, perché l’etologo aveva precorso i tempi.

Ci sarebbe voluto ancora mezzo secolo prima che l’uomo acquisisse l’idea moderna, ma purtroppo limitata, ai paesi più evoluti.

Gli animali sono senzienti, quindi vanno amati e rispettati.

 Cari Libralchimisti, questo è l’ultimo mio articolo per l’estate. Vi auguro buone vacanze e vi do appuntamento a settembre per nuovi incontri settimanali.

Otis Ribera, Libralchimia.

Konrad Lorenz: Oche selvatiche

Konrad Lorenz: Oche selvatiche

Irene Valota, attrice.

-Testi di Sara Butera-

«Chi vuole recitare?»

«Io!» Risposi spontaneamente.

Il regista si stava riferendo al musical che stava dirigendo; io, invece, credevo stesse ponendo una domanda più ampia: «Chi, nella vita, vuole fare l’attore?»

Questa incomprensione, a soli tredici anni, ha aperto la porta d’accesso al mio futuro.

Mi sono formata accademicamente al DAMS di Torino, dove ho studiato drammaturgia teatrale. Qui, ho imparato la teoria, per poi perfezionare la tecnica presso la Scuola Internazionale di Teatro di Kuniaki Ida, secondo il metodo Lecoq.

Ho seguito corsi, seminari, imparato a muovermi su quei palchi che possono intimorire, ma che permettono di superare i limiti, provando sensazioni che proiettano oltre la realtà.

Recitando nel film drammatico “Fino a farti male” di Alessandro Colizzi, ho amato stare davanti alle telecamere: è un’esperienza che ripeterei con gioia, eppure è in teatro che mi sento nel mio ambiente naturale.

Sul palco non sono Irene. Esco dai miei panni per immergermi in altri personaggi, in altre vite.

Il trucco, i vestiti, non sono solo accessori. Sono strumenti che mi aiutano a levarmi la mia stessa pelle, per calarmi totalmente nei ruoli che interpreto.

Ricordo ogni esperienza, dalla più piccola alla più grande: ognuna di esse mi ha insegnato tanto.

Quando, con la Compagnia della Rancia, ho interpretato tre ruoli differenti nel remake teatrale di “Rain Man”, sono stata proiettata in un mondo fino a quel momento a me sconosciuto.

Lavorare con una grande produzione è stato illuminante.

Ho imparato a vedere il lavoro in team sotto una nova luce, perché se fino ad allora ero io stessa l’unica responsabile dei miei gesti fuori dalle quinte, in quel momento ho preso coscienza che un mio errore avrebbe condizionato tante altre persone.

Il teatro è una grande macchina, i cui ingranaggi sono strettamente collegati l’un l’altro.

Truccatori, costumisti, sceneggiatori, registi, attori… fanno tutti parte di un’unica entità, ed è stupendo sentirsi parte di quel mondo che permette agli spettatori di sognare.

Il pubblico è mancato tanto in questi ultimi tempi. Siamo diventati attori senza palco, senza un pubblico davanti a cui esibirci.

Si cercano altre strade e, per fortuna, io ne avevo già intrapresa una ricca di soddisfazioni. Già da anni faccio parte di “Sguardi incrociati”: un gruppo di donne meravigliose. Collaboriamo con la Professoressa Vincenza Pellegrino, approfondendo il tema complesso dei femminismi plurali tramite incontri all’Università di Parma.

Anche qui, negli ultimi tempi, qualcosa è cambiato… non nello spirito, quello resta intatto.

La differenza sta nel fatto che parlare con le persone è ben diverso dal dialogare davanti ad uno schermo anonimo.

C’è stato un momento in cui mi sono sentita disorientata: dovevo tenere una lezione, ma avevo la sensazione di parlare da sola poiché, online, non sapevo se gli utenti sentivano, se mi stavano guardando, se stavano capendo.

Io, che sono abituata a sentire il calore del pubblico, ad esprimermi con i movimenti del corpo e non solo con le parole, lontana dalle mie certezze non mi sono persa d’animo ed ho trovato un espediente; ho aperto una finestra sul computer che mi facesse da specchio, in modo da avere un’interlocutrice: me sessa. Per fortuna, questo metodo ha riscosso successo.

Devo ammettere che questo periodo complesso ha anche aperto la strada a nuove opportunità. A novembre, per preparare gli studenti una lezione che aveva il tema del “riparare”, ho realizzato un video autobiografico dal titolo “Con le mie mani”, tuttora su YouTube.

In quest’epoca d’incertezze, come molti di voi, non so cosa sarà del mio futuro, ma guardo avanti con fiducia.

Ho in cantiere un grande progetto: io e mio fratello stiamo sistemando la casa nelle Marche, purtroppo danneggiata dal terremoto del 2016, con l’intento di creare un posto di ritrovo in cui attori, scultori, pittori, scrittori, possano, come me, rivelare sé stessi attraverso le proprie arti.

Sara Butera, Libralchimia.

Vuoi scoprire di piùsu Irene Valota? Clicca qui: https://youtu.be/IZm-S2afF0E

Irene Valota e gli ingranaggi del teatro

Scatti di Daniele Cipriani

Erich Fromm: fuga dalla libertà – Uno dei testi di Fromm, psicoanalista e sociologo tedesco che negli anni settanta accesero infiammati dibattiti tra sostenitori e avversari delle sue tesi, fu il libro “Anatomia della distruttività umana”.

Egli analizzò a livello antropologico, sociologico, storico e culturale, i comportamenti individuali dei nostri progenitori, dei clan e, per ultimo, l’organizzazione sociale sempre più complessa: lo Stato.

Raffrontò e studiò connessioni tra l’uomo e i comportamenti con altri animali, soprattutto con i nostri parenti più stretti: le grandi scimmie.

Fromm sostenne che l’uomo conserva solo in parte l’istinto dei suoi progenitori; nei millenni, l’ambiente, l’aggregazione, l’organizzazione, l’esperienza individuale e di gruppo, ne ha plasmato e modificato gli istinti (epigenetica).

Nel libro, spiegò i meccanismi storico-sociali che nel corso dei secoli hanno portato al potere uomini assolutamente squilibrati e distruttivi, Hitler e Stalin ne furono esempi terribili.

Meno famosi ma non meno feroci furono, tanto per citarne solo alcuni, Pol Pot e Bokassa.

Erich Fromm cercò di dare una risposta a come sia stato possibile che folli sanguinari siano stati portati al potere da masse esultanti considerate normali e dotate di intelligenza e cultura.

Già nel 1941 con il libro “Fuga dalla libertà” aveva affrontato, seppur in chiave diversa, questo tema.

La risposta era racchiusa, in sintesi, nel titolo stesso del libro.

La recente pandemia ha “scoperchiato” grandi qualità umane ma anche, per fortuna rarissimi, casi di aggressività.

Molti di noi erano convinti che questa crisi mondiale avrebbe in qualche modo cambiato in senso positivo l’uomo, risvegliato in ognuno spinte elevate come l’altruismo, la solidarietà, la pietà.

Il personale sanitario di alcuni ospedali è stato aggredito da individui, pochi per fortuna, guidati da bassi istinti primordiali: hanno lanciato sassate contro autoambulanze, ed hub vaccinali sono stati colpiti da bottiglie incendiarie.

Non si possono negare splendidi esempi di generosità.  Gli operatori sanitari non si sono risparmiati, molti di loro hanno donato la loro stessa vita (115.000 in tutto il mondo secondo l’OMS).

Cari libralchimisti,

la prossima settimana vi parlerò di Konrad Lorenz, premio Nobel, pioniere dell’ambientalismo, fondatore della disciplina biologica che studia il comportamento animale (etologia).

Precursore dell’attuale crescente sensibilità verso gli animali domestici finalmente riconosciuti (In Italia è allo studio un disegno di legge e in UK è già in vigore) senzienti.

Otis Ribera, Libralchimia.

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Erich Fromm: paura della libertà

Disegno di Otis Ribera